L. Palazzani: Le linee del dibattito bioetico sulla questione di fine vita

Le linee del dibattito bioetico sulla questione di fine vita

Laura Palazzani*

   L’incremento delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni da un lato apre a nuove prospettive terapeutiche, dall’altro configura condizioni patologiche inedite che sollevano nuovi problemi morali e giuridici. L’evoluzione scientifico-tecnologica aumenta le possibilità di sopravvivenza, rendendo possibili condizioni di esistenza inedite, spesso vissute drammaticamente, con un’invadenza della tecnologia. Nella società pluralistica sul piano dei valori si aprono molti interrogativi etici.
Le linee comuni bioetiche sulla questione di ‘fine vita’ – in una società complessa, pluralistica e secolarizzata – si possono trovare oltrepassando i riferimenti al diritto/dovere di vivere ‘ad ogni costo’ o diritto di morire (in qualsiasi circostanza), su almeno due elementi: la non obbligatorietà delle cure sproporzionate e la doverosità delle cure palliative.

 

La non obbligatorietà di cure sproporzionate costituisce un minimo comune condiviso del dibattito bioetico, pur nella diversità delle teorie. I criteri generali per definire la sproporzione delle cure sono generalmente ricondotti a: inefficacia/futilità delle terapie identificata nell’assenza di un bilanciamento tra i rischi e i benefici, gravosità della sofferenza, difficoltà di accesso alle terapie e alti costi. Si tratta di criteri elaborati con riferimento alla valutazione medica del paziente e della condizione reale/obiettiva del malato. Data la duplice dimensione nella considerazione della ‘sproporzione’ che include la dimensione oggettiva del medico e soggettiva del paziente, è imprescindibile la ‘relazione terapeutica’ medico/paziente nella definizione delle condizioni in cui si determina un ‘accanimento tecnologico’.
L’elemento di maggiore problematicità bioetica e biogiuridica si evidenzia quando la considerazione oggettiva del medico e soggettiva del paziente non coincidono. Quando il medico ravvisa condizioni di proporzione delle terapie alle quali il paziente rinuncia (o chiede il non inizio) e/o rifiuta (ossia ne chiede la sospensione), in quanto le percepisce soggettivamente come ‘accanimento’; viceversa, quando il paziente chiede interventi e trattamenti che a parere del medico sono sproporzionati. E’ in questi contesti che si evidenzia la delicatezza della discussione bioetica.
Nel caso di rifiuto attuale di terapie da parte del paziente autonomo, va ricordato che il medico ha il dovere deontologico e morale di informare il paziente delle possibilità terapeutiche e delle conseguenze delle sue scelte; l’informazione non deve ridursi ad una neutrale descrizione delle alternative e non deve limitarsi ad una passiva accondiscendenza rispetto alle richieste del malato, ma deve tradursi in una vicinanza umana alla drammaticità esistenziale della scelta nello sfondo di un consiglio verso la cura (mai coercitivo). Il medico non può imporre coercitivamente un trattamento sanitario o un ‘dovere di vivere’ e la morte del paziente come effetto del rifiuto delle terapie non è intenzionalmente voluto e non attivamente provocato (non è eutanasia).
Nel caso del rifiuto delle terapie da parte di un paziente ‘dipendente’, ossia non in grado di portare autonomamente ad esecuzione il rifiuto delle cure (il caso del paziente paralizzato, con una patologia neurodegenerativa progressiva inguaribile), si apre il problema deontologico ed etico del medico che, per esaudire le richieste del paziente, avverte interiormente di andare contro il suo dovere professionale. Si discute, in questo caso, del diritto del medico ad obiettare in coscienza astenendosi da comportamenti contrari ai propri valori, pur riconoscendo che la volontà ed il desiderio del malato debbano essere esauditi: in questo caso sarebbe la struttura a dovere garantire la presenza di medici disponibili ad eseguire le volontà dei malati.
Vi è anche il caso – contrario – del paziente che chiede interventi e trattamenti che a parere del medico sono sproporzionati. Ciò può avvenire anche nel contesto dei trattamenti di fine vita, per il desiderio di vivere ‘ad ogni costo’, anche usufruendo di terapie sperimentali, ad alto rischio e elevati costi. In tale contesto il medico ha il dovere deontologico di non praticare forme di accanimento, anche se richieste, di far comprendere al malato i limiti della medicina e di agire secondo i limiti di ragionevolezza. Si possono considerare eccezionali alcune richieste da parte di pazienti senza speranza di guarigione di accesso a trattamenti non validati, ma in corso di sperimentazione: tali richieste, nella misura in cui necessitano dell’intervento medico, possono essere accolte ed esaudite dai medici, nella misura in cui non ci siano alternative terapeutiche, esistano dati rilevanti dalla letteratura scientifica che ne mostrino la ragionevolezza e la potenziale efficacia, e soprattutto il paziente sia adeguatamente informato sulla incertezza dei rischi.
Sia che il paziente rifiuti trattamenti proporzionati sia che chieda trattamenti sproporzionati, se il medico si limita a prendere atto della volontà del paziente (non iniziando una terapia, sospendendo una cura già iniziata o agendo al fine di soddisfare la sua richiesta), si delinea il rischio di una deriva verso una medicina contrattualista che riduce il rapporto medico/paziente ad una esplicitazione di volontà (da parte del primo) e ad una esecuzione aproblematica (da parte del secondo) che non può che portare ad una disumanizzazione dei rapporti interpersonali. Il medico è vincolato al dovere deontologico terapeutico, ma anche eticamente al dovere di cura che possa colmare, in modo solidaristico, la strutturale asimmetria del rapporto: il medico, in condizione di competenza e salute, il paziente in condizione di incompetenza, vulnerabilità e debolezza. Il medico deve prendersi cura del malato, assistendolo con cure palliative e accompagnandolo nel morire, con vicinanza e sollecitudine, senza ostinarsi a curare ad ogni costo quando le terapie risultano essere inefficaci, oltre che gravose per il paziente.
Il rifiuto/rinuncia o richiesta da parte del paziente rispetto al medico, possono essere espressi in modo attuale (ossia qui ed ora) o anticipato rispetto a condizioni possibili/eventuali future ove il soggetto sia privato di coscienza e impossibilitato ad esprimersi. E’ questo l’ambito delle “disposizioni anticipate di trattamento”, che configura la possibilità per un soggetto in condizioni di competenza di redigere un documento sulle proprie volontà o desideri rispetto all’accettazione o al rifiuto di cure con riferimento ad una possibile situazione futura di malattia che lo privi della coscienza.
La discussione bioetica vede la contrapposizione tra chi ritiene legittimo scrivere nel “Testamento biologico” ciò che si vuole (anche la richiesta eutanasica o di accanimento terapeutico) vincolanti per il medico (che deve eseguirle comunque) e chi invece ritiene che si possano sottoscrivere solo “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, con la possibilità di esprimere desideri del soggetto da “tenere in considerazione” dal medico, in modo non assolutamente vincolante. Questa seconda possibilità, sollecitata dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel 2003 si richiama alla Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del 1997. Le “disposizioni anticipate” costituiscono una via intermedia che da un lato accentua la vincolatività della richiesta del soggetto rispetto all’esecuzione del medico, pur limitando le richieste a volontà che non contrastino il diritto positivo, il codice deontologico e le buone pratiche cliniche.
La questione bioetica generalmente sollevata su tali documenti riguarda la astrattezza delle dichiarazioni/disposizioni/Testamento rispetto alla situazione concreta, mai precedentemente vissuta dal soggetto e percepita come mera eventualità. Per quanto il medico descriva nel dettaglio le possibili condizioni future, tale descrizione non potrà mai rappresentare esaustivamente la realtà e la distanza temporale lascia sempre aperta la possibilità che la volontà muti nel tempo e possa non trovarsi nelle condizioni di esprimersi. Uniche vie d’uscita a tali problematicità sono la previsione della revocabilità delle dichiarazioni/disposizioni (senza formalismi o procedure che ne rallentino la validità) e l’assunzione consapevole del rischio da parte del firmatario che la sua volontà possa cambiare senza poter esprimere tale cambiamento.
Il problema della validità di tale documento non è solo etico e giuridico, ma anche e soprattutto culturale. Non si tratta solo di intervenire sul piano legislativo per formalizzare le procedure, quanto piuttosto di valorizzare in modo sostanziale la rilevanza dell’acquisizione di una consapevolezza e sensibilità bioetica nell’ambito del rapporto medico-paziente nel momento della formulazione delle preferenze alla fine della vita. Auspicabile è la divulgazione sociale delle informazioni, ma soprattutto una formazione e sensibilizzazione culturale rivolta ai medici, agli operatori sanitari, ai cittadini, all’opinione pubblica sulla rilevanza e il significato di tali documenti con riferimento al valore della vita alla fine.
La “pianificazione condivisa delle cure” costituisce un documento che, analogamente alla disposizioni anticipate, è redatto in anticipo, ma a differenza delle DAT, è sottoscritto da un paziente malato inguaribile, rispetto a scelte future nel decorso inesorabile della malattia. Tale documento riproduce in modo più concreto la realtà vissuta dal paziente nella prospettiva di una evenienza inesorabile (data la inarrestabile evoluzione della patologia a prognosi infausta) e consente il prolungamento del dialogo medico-paziente, in ogni fase della patologia, sino agli ultimi giorni. La pianificazione condivisa nasce costitutivamente da un dialogo tra paziente e medico che si sviluppa ed evolve nel tempo, scandito dai tempi della malattia; che si modifica con la modificazione del vissuto del paziente rispetto all’evolversi della malattia (nel costante aggiornamento che prevede la legge sulla base della ‘richiesta del paziente’ e su ‘suggerimento del medico’), ove il destinatario della pianificazione (ossia colui che davvero la applicherà) è lo stesso medico che è stato vicino al paziente nel momento della elaborazione ‘dinamica’ della pianificazione (a differenza della DAT, ove il medico che informa il malato al momento in cui redige le DAT non è con ogni probabilità che applicherà le DAT).
Nell’ambito della cura alla fine della vita è indispensabile la implementazione delle cure palliative, come dovere della struttura sanitaria e del medico e diritto del paziente. Le cure che non possono ‘guarire’ il malato dalla malattia, ma ‘si prendono cura’ della sua sofferenza, dei suoi bisogni. L’aggettivo ‘palliativo’ non rende pienamente ragione del loro importante significato e funzione: palliativo non significa non risolutivo, o peggio ancora, inutile o rimedio in assenza di alternative reali. Le cure palliative indicano l’approccio di ‘care’ che ha per obiettivo il controllo del dolore e della sofferenza, il miglioramento della qualità di vita e del benessere del paziente in senso complessivo, nel contesto della solidarietà nei confronti della malattia, dell’attenzione nei confronti della fragilità e della vulnerabilità alla fine della vita, una fragilità che aumenta quanto più malato è in una condizione di dipendenza, decadimento, emarginazione, isolamento, ospedalizzazione.
In questo contesto il dovere del medico non è quello di curare ad ogni costo, ma è quello di comprendere i limiti del proprio sapere e della vita umana, di ‘prendersi cura’ del malato, di essere vicino alle sue esigenze. Nella consapevolezza che la vera paura del malato non è quella di morire, ma di soffrire e di essere lasciato solo. In questo senso le cure palliative offrono un supporto insostituibile per un’adeguata ‘umanizzazione’ delle cure. Le cure palliative costituiscono un’appropriata risposta alla richiesta dei malati di non soffrire: quella di eliminare il dolore, ma non la vita, accompagnando il malato non ‘a’ morire, ma ‘nel’ morire. Un accompagnamento non tecnologico, ma umano.
In questo senso anche se l’uso di cure palliative con l’intenzione di migliorare la condizione complessiva del paziente ha come effetto secondario l’anticipazione (di ore o di giorni) della morte, non si configura un’eutanasia (eutanasia lenitiva, come viene impropriamente chiamata). A ben vedere, modalità appropriate di somministrazione della morfina (es. per difficoltà di respirare) non abbreviano la vita, anzi garantiscono il miglioramento del benessere e possono anche allungarla.
Nel caso di sofferenza psico-fisica provocata da sintomi refrattari al trattamento nella fase terminale nell’imminenza della morte (ultimi giorni o ore) è clinicamente appropriata e eticamente doverosa una sedazione palliativa, che non significa sedazione terminale, ma semmai sedazione ‘non terminale’, che riduca la vigilanza (se con il consenso informato anticipato del paziente, in condizione di consapevolezza), anche fino alla sua abolizione (permanente) per il controllo della sofferenza fisica e psichica giudicata intollerabile dal malato stesso. Nella misura in cui la sedazione farmacologica palliativa è indicata dai medici a causa della resistenza al dolore, in condizione di prognosi infausta a breve e consenso informato, è generalmente considerata legittima. Si tratta di una pratica eccezionale la cui intenzione primaria è quella di alleviare una sofferenza, non altrimenti alleviabile.

*La professoressa Laura Palazzani è ordinario di Filosofia del Diritto, LUMSA, membro del Comitato di Bioetica alla Commissione Europea e all’UNESCO