ERMINIO LONGHINI: un ritratto dal vero

Riprendiamo con nuova energia, dalla IX Conferenza, con il ricordo del prof. Erminio Longhini, a cura di Claudio Lodoli.

Il pomeriggio di sabato 14 maggio 2016, un anno fa, ero a casa di Erminio Longhini.
Non stava bene. Ci siamo trattenuti nella sua stanza di lavoro, dove si concedeva la libertà di lasciare libri aperti, riviste e appunti sparsi sul grande tavolo rotondo, mentre Jerry, il suo canino, accovacciato sul divano, ci guardava curioso.
Bevemmo del tè e discutemmo a lungo sulla possibilità della sua partecipazione alla imminente Conferenza dei Presidenti delle AVO d’Italia a Salsomaggiore. Mi fece capire subito che non aveva alcuna intenzione di rinunciare, tuttavia convenne sulla necessità di formulare un paio di ipotesi alternative, e mi dettò istruzioni precise sulla gestione di ciascuna.

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Si è fatta l’ora di cena, e insiste perché mi trattenga con lui. Ci spostiamo nel tinello. Non ha appetito, ma alla fine mangia qualcosa volentieri. Il televisore è acceso, facciamo qualche commento al TG, poi parliamo di un po’ di tutto; ricordiamo un episodio ameno e ci scappa qualche sana risata.
Siamo soli, seduti al tavolo stretto e lungo, l’uno di fronte all’altro.
Lo guardo negli occhi magnetici e gli chiedo come si senta. Sorride, e dopo qualche secondo risponde che si sente sereno. Si ferma, come per trovare parole più appropriate, e poi prosegue testualmente: «Mi sento sazio di vita».
Aggiunge di avere vissuto una vita ricca, piena: una moglie straordinaria, tre figli stupendi, una professione che gli ha dato tante soddisfazioni.
Assume un’espressione dolce, mentre dice: «Ho avuto l’AVO».
Ancora una pausa, poi riprende con tono pacato e disteso: «Ora può bastare».
Si ferma di nuovo, medita, e conclude:
«Spero soltanto che il Padre perdoni le mie mancanze, le mie indegnità, e mi accolga subito fra le sue braccia».

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In effetti Erminio Longhini ha vissuto intensamente ogni fase, ogni istante della sua lunga esistenza. Dalle letture e dagli interventi che abbiamo ascoltato questa mattina, è scaturito il senso profondo di quella esistenza.
Si è detto di lui che sia stato un visionario, ed è vero.
A volte, però, la parola visionario è usata come sinonimo di utopista-sognatore.

Erminio, invece, è stato un uomo dalle grandi capacità di visione, qualità indispensabile per chi detiene ruoli di alto livello in qualsiasi ambito. Ma ho conosciuto pochi esponenti della classe dirigente, in grado di coniugare con tanta efficacia immaginazione e pragmatismo.
È stato un medico illustre e un uomo di scienza che ha dedicato la vita allo studio e alla ricerca, pubblicando quasi cinquecento lavori. Nello stesso tempo – primario a 39 anni – ha dimostrato sul campo competenze strategiche e pratiche non comuni.
Non a caso sapeva tirare di scherma e, ancora ragazzino, aveva vinto un torneo di sciabola. Non a caso conosceva bene il gioco degli scacchi, e batteva avversari molto esperti.

Erminio rifletteva a lungo prima di agire; ma quando si convinceva della bontà di un progetto non si fermava davanti ad alcun ostacolo. Aveva una volontà di ferro, la costanza e la regolarità di un pendolo, accompagnate da una resistenza fisica che, in età avanzata, gli permetteva di percorrere almeno tre chilometri a nuoto in mare e in piscina.

Con questi presupposti, quando nel 1968 approda all’Ospedale Città di Sesto San Giovanni per dirigere la Divisione di Medicina I tutta da ricostruire, accetta la sfida elaborando un piano ambizioso: dall’ammodernamento delle dotazioni tecnologiche al ricambio generazionale e alla formazione del personale, allo sviluppo della ricerca scientifica all’interno del reparto.

Erminio vuole volare alto, e pensa in grande.
Sa bene che da parte della Pubblica amministrazione non otterrà i fondi necessari.
A Sesto, però, ha sede la Campari, impresa diventata famosa per l’aperitivo e il cordiale. La Campari aveva fatto una importante donazione all’ospedale al tempo della fondazione: Erminio, lo viene a sapere e a sua volta si rivolge alla presidente della Società, Angiola Barbizzoli Migliavacca.
In un incontro memorabile si schiude la via a un modello di stabile collaborazione pubblico-privato: per tre decenni la grande azienda sosterrà generosamente la Divisione di Medicina I, che verrà ribattezzata “Divisione Campari”.
Quando il Città di Sesto San Giovanni viene scorporato dall’Ospedale Maggiore di Milano, Erminio per un po’ di tempo svolge le funzioni di direttore sanitario.
Siamo a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Anni di conflitti sociali estremi, di violente manifestazioni di piazza e di terrorismo, durante i quali deve misurarsi con aspre trattative sindacali, contestazioni e perfino minacce rivolte anche alla sua famiglia.

Fu una prova molto dura per lui: era timido molto più di quanto non desse a vedere, ma nulla lo spaventava. Eppure lo turbavano conflitti, e non sopportava i toni aggressivi di persone che alzavano la voce per affermare il loro punto di vista.

Se questa sensibilità lo ha fatto soffrire nei momenti più delicati della sua professione, figuriamoci nell’Associazione Volontari Ospedalieri, sorta all’insegna della reciprocità. Così, dopo aver subito o assistito a una sfuriata, quando la persona agitata finalmente se ne andava, si limitava a dire: «Ma cosa aveva oggi?» Però ci restava male, molto male.

Torniamo a Sesto, negli Anni di piombo. Ancora una volta Erminio resiste e va avanti per la sua strada, supera quei tempi bui, e reggerà brillantemente il reparto per trent’anni, ricevendo significativi riconoscimenti e alte onorificenze.
Posto a capo di una struttura complessa all’età di trentanove anni, come primo atto di governo aveva chiesto la fiducia dei suoi collaboratori e, pur non essendo affatto tenero, la ottenne. Erminio aveva la stoffa del leader.

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E l’AVO? L’AVO è una conseguenza diretta del primariato. Quando vede che il suo progetto di creare a Sesto una divisione di eccellenza è raggiunto, allora comincia a valutarne i punti deboli.
Un giorno mi affidò un suo appunto dove era scritto:
«Tante novità terapeutiche e di ricerca, ma il malato continuava a volte a morire. Capii che la tecnologia era un mezzo e non un fine. Cominciai a intessere rapporti con la gente, con i parenti, con i malati. Ma avevo sempre la sensazione di incompletezza. Il malato era passivo, più soffriva più era solo e passivo. Da qui la storia la sai, perché è scritta ogni dove. Mi tornò in mente l’episodio del bicchiere d’acqua in quell’8 dicembre di tanti anni prima, al Niguarda».

Dunque la sua attenzione è concentrata sulla divisione medica che dirige. Erminio intende sanare quel senso di incompletezza che lo inquieta, offrendo maggiore agio e serenità ai suoi ricoverati. Chiede sostegno alla sua Nuccia – in seguito da lui definita affettuosamente “truppa da sbarco” – che, dopo qualche esitazione, accetta di condurre in reparto un gruppo di amici di famiglia, alla prima esperienza di volontariato ospedaliero.
Le cose prendono presto una piega imprevista: dopo la costituzione della prima AVO a Milano, l’Associazione esplode scomponendosi in tanti frammenti sparsi in tutta Italia: Longhini è costretto a rivedere il suo progetto, come sappiamo. Ed è il motivo per cui oggi ci troviamo qui a Lecce, a distanza di quarantadue anni.

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Erminio era una fucina sempre in attività. Divideva la giornata in tanti spicchi e rispettava meticolosamente i tempi. A volte dava l’impressione di una eccessiva regolarità, che si riproduceva nel privato: dall’ora della Messa al mattino, alla passeggiata con il cane; dalla nuotata in piscina, alle giornate stabilite per le visite in studio, alle telefonate serali per l’AVO. Non mancava mai di comprare il giornale che per definizione era il Corriere della sera. Guidava con disinvoltura e speditezza: ha avuto molte automobili ma, salvo la prima, una 1100 Fiat che non gli piaceva molto, forse per la sua forma “quadrata”, ebbe sempre e soltanto delle Lancia. Adorava i cani, conosceva le caratteristiche e le qualità delle varie razze. Ne ebbe sette, e li chiamò tutti Jerry.
Questo approccio sistematico ad ogni aspetto della vita, rispecchia la sua vocazione alla scienza, ma anche il senso del dovere che ha implicato importanti sacrifici per se stesso e per la sua famiglia.
Non ha mai lasciato soli i suoi malati in ospedale, e non ha lasciato soli gli altri – perlopiù conoscenti e amici – che seguiva in studio. Non ha lasciato soli i malati più poveri ed emarginati, che assisteva negli ambulatori di quartiere e nelle roulotte della Caritas.
Aveva superato gli ottant’anni, quando una sera – ero a cena con lui e con Nuccia – venne chiamato per una urgenza. Chiuso il telefono, subito si alzò dalla tavola e, con il volto serio, disse semplicemente «Devo andare». Nuccia gli porse le chiavi dello scooter, e lui ci salutò dicendoci di non aspettarlo.
Essere medico era la sua missione. Dopo l’impennata della malattia nell’ottobre 2014, andai a trovarlo a casa sua il giorno di Ognissanti, e ricordo che mi disse:
«Mi sento spossato, il fisico non regge. Ma la cosa che più mi avvilisce è aver smesso di fare il medico».

Della sua carriera professionale è stato sempre orgoglioso, si riconosceva i giusti meriti e non rinunciava mai a far sentire la sua voce autorevole. Al contrario, non amava essere definito fondatore dell’AVO. Ribadiva con forza la paternità della sua idea, ma sosteneva che l’AVO era stata fondata da coloro che si erano prodigati per riprodurla altrove.
Erminio volava alto, il suo sguardo era proiettato oltre l’orizzonte e, sostenuto dalla fede che conosciamo, dedicava lunghe riflessioni alle grandi questioni sociali. Pativa per le disuguaglianze, e aspirava alla fratellanza fra gli uomini ispirata al Vangelo. Lui che aveva raggiunto il successo provenendo da una famiglia di modesta condizione economica, riconosceva le sofferenze degli ultimi, e aspirava a un mondo più giusto e più equo attraverso un cammino che iniziava dai piccoli gesti amorevoli.

Erminio è stato un grande innovatore: aveva una sorta d’intolleranza al telefono cellulare e al computer, ma si era battuto per una rivoluzione tecnologica e organizzativa nel suo reparto. In seguito, con l’ospedale aperto alla collaborazione e alla partecipazione della cittadinanza, aveva gettato il seme di una autentica rivoluzione nella Sanità italiana.
Ecco il significato di quella piccola, sensazionale idea che diede origine all’AVO!
Fino alla fine ci ha incoraggiato a condurre l’Associazione nel futuro, tutelando i principi fondanti ma adeguando tutto il resto alle istanze dei tempi.
Quante volte, di fronte alle nostre titubanze, ci ha esortato a non avere paura di estendere il servizio dell’AVO alle strutture territoriali, in particolare nella psichiatria!
Quanto ha insistito negli ultimi interventi perché ci accostassimo alla domiciliarità!

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Cari amici, il cerchio si chiude. Siamo tornati a casa Longhini, nel pomeriggio del 14 maggio dello scorso anno.
«Spero soltanto che il Padre perdoni le mie mancanze, le mie indegnità, e mi accolga subito fra le sue braccia».

Siamo certi che questo desiderio di Erminio sia stato realizzato la sera del 4 novembre 2016.
Egli non è più con noi.
Data la grandezza della sua personalità, esiste il rischio di vederlo presto trasformato nell’immagine di un’icona, simbolo dell’irraggiungibilità del Maestro. Così sarebbe sancita la distanza incolmabile tra il suo pensiero, il suo stile di vita e il nostro approccio quotidiano alla vita, e all’associazione.
Ciò non deve accadere, perché Erminio ha rifiutato il titolo di Fondatore e ha scelto di essere uno di noi.
Era il più grande, ma uno di noi, e a nessuno di noi è impossibile attingere alla miniera di insegnamenti preziosi che ha lasciato, non tanto e non solo per estrapolarne massime e aforismi.
Quegli insegnamenti, sono il frutto delle riflessioni di un uomo di scienza e di fede, che ha vissuto tutti gli aspetti della sua vita, anche di quella interiore e spirituale all’insegna della ricerca e dello studio. Fra le numerose iniziative culturali, con i Gesuiti di San Fedele a Milano, aveva promosso e frequentato egli stesso un corso di Teologia, continuando ad approfondire temi teologici fino all’ultimo giorno.

Non ricordo di aver sentito Erminio parlare di miracoli. Ha guarito molte persone in condizioni estreme: il miracolo, per Erminio, consisteva nell’illuminazione dello Spirito, il vero Vangatore che opera attraverso la disponibilità di una buona vanga.

Ora, Erminio, è con il Vangatore. E credo si aspetti molto da noi.
Credo si aspetti che ciascuno voglia farsi – come lui – buona vanga.
Dunque, la domanda «A chi tocca?» che lo aveva accompagnato dall’8 dicembre 1967 fino alla nascita dell’AVO, si ripropone oggi, in questa sede.
Con la sua stessa concretezza e la sua determinazione, la risposta non può essere altra: tocca a tutti noi.